domenica 30 giugno 2013

The Exploding Girl

Un film di Bradley Rust Gray con Zoe Kazan e Mark Rendall. USA, 2009.

Una bella opera prima indipendente per il regista-sceneggiatore Bradley Rust Gray che, dopo alcuni cortometraggi, è approdato al lungometraggio. Presentato al Festival di Berlino, il film è una commedia deliziosa dal tocco amatoriale e il cast eccezionale: meritatissimo il premio Miglior Attrice al Tribeca Film Festival.






Una fragile e splendida Zoe Kazan che interpreta Ivy, racconta la quotidianità e la normalità di una giovane studentessa di ritorno a casa per le vacanze, alle prese con l'epilessia, un amore annoiato, una madre silenziosa ed un amico affettuoso con cui passare le giornate sullo sfondo di una Brooklyn caotica, rumorosa e luminosa, molto city contemporanea, esaltata, inoltre, da splendide riprese very street. E non c'è solo la città ma ci sono i locali, i tetti, i tramonti e gli eventi, in un mix di upper-class e hipsterismo, il tutto condito con il classico romanticismo da Grande Mela.

Tra i temi principali, oltre allo scherzo amoroso e all'assenza familiare, spicca quello della solitudine e della forza di una giovane donna mentre si confronta con un limite (l'epilessia) che la fa sempre vivere sul filo del rasoio, senza poter condividere le legittime insicurezze con qualcuno, fatta eccezione per l'amico Al, isola felice su cui approdare a fronte di un disinteresse generale atipico e anormale.

La principale tecnica con cui è stato girato questo piccolo gioiellino leggero anche se molto intenso per le tematiche, si aggiunge a tutti quei rivoluzionari esperimenti ultra contemporanei che partono quasi sempre dall'America e dal genio dei suoi videomaker più squattrinati che rivisitano le grandi lezioni “alla Lars Von Trier” o, per citare esempi ancora più storici, da Nouvelle Vague, inventando un cinema nuovo, sempre e rigorosamente low budget, in linea con i tempi.
Né esigenze né vincoli produttivi, troupe talvolta improvvisate, scarne, non professioniste e riprese rubate, girate senza permessi o autorizzazioni (come quelle in metro per esempio): tutti ingredienti del cosiddetto guerrilla filmmaking.
Un espediente tutto indipendente che, alla stregua del movimento mumblecore, cerca di interpretare le esigenze concrete dei filmmaker di oggi trasformando ogni ostacolo alla realizzazione di un'opera filmica, in precisa scelta stilistica e dando vita ad un cinema sempre in evoluzione, letteralmente sperimentale.


venerdì 28 giugno 2013

Juno

Un film di Jason Reitman con Ellen Page e Michael Cera. 2007, USA.

Ha vinto al Festival Internazionale del Film di Roma ed è l'ottima opera seconda e indipendente di Reitman, secondo film dopo Thank You For Smoking.

E' l'opera che segna anche l'inizio del riuscito sodalizio tra il regista e la sceneggiatrice Diablo Cody (premio Oscar proprio per Juno), matrimonio artistico che li rivede insieme nel 2011 per Young Adult. I suoi dialoghi assurdi rappresentano sempre il tocco speciale in più che ogni film vorrebbe avere, per ottenere quella consueta brillante ironia che quando investe una commedia indipendente, poi la trasforma in vero e proprio capolavoro.

L'autunno nel Minnesota inizia presto, le foglie dei vialetti cominciano a cadere mentre i ragazzi vanno a scuola e di pomeriggio escono con gli amici.
Tutto iniziò con una poltrona” racconta Juno bevendo da una bottiglia di succo con fare ribelle prima di diventare una poetica animazione nei titoli di testa più belli mai visti prima: indie e sofisticati, vedono lei, la protagonista del film, camminare e camminare, fino ad immergersi nella realtà live action, sotto, neanche a dirlo, una delle colonne sonore più perfette della storia del cinema, con brani scelti, di prima qualità da riascoltare all'infinito, primo tra tutti quello d'incipit che suona sui titoli raccontando già la sua storia “All I Want is You”.

Un viaggio tra le stagioni di una vita giovane alle prese con “uno scarabocchio che non si può più cancellare”, immersa in scenografie curate nei minimi dettagli, sfondi dai colori caldi, ricchi di oggetti particolari, pop e fotografie sui muri.

Il cinismo irriverente è la chiave di lettura principale dell'intero film che punta molto sul carattere e sulla personalità di Juno, Maghetta per gli amici, (Ellen Page), sedicenne, eccentrica e spaesata, piccola ribelle incinta che si ritrova dunque ad affrontare una fase delicata della vita di una giovane donna, resa meno drammatica dall'umorismo tagliente e dalla feroce ironia che lei stessa usa per tirarsi fuori situazioni scomode, e continuare ad osservare il suo mondo noncurante di ogni regola o schema, vagando con una pipa in bocca, per giardini arredati e vialetti colorati a cercare dei genitori adatti al il “fagiolo che sta cuocendo”.

Quelli perfetti saranno Mark e Vanessa: una di quelle coppie “belle anche in bianco e nero” che inevitabilmente nascondono poi irrisolte questioni d'amore, e, a proposito di amore, come non parlare di Bleeker (Michael Cera)? Grande amico di vita di Maghetta, timido e sincero, è la personaggio costante del film, a volte invisibile ma nel complesso sempre presente nella sua infinita tenerezza/inettitudine.

Il tema quasi principale è quello della forza, del carattere femminile che in qualche modo prevalgono sull'uomo un po' più incapace di gestire le proprie emozioni, più impacciato (Bleeker) o più spaventato ed immaturo (Mark).
Altro tema affascinante, l'attrazione sensuale, un po' sconveniente, ma percepibile fin dal principio tra Juno e Mark: è il grande non-detto, non-narrato del film, che poi alla fine rappresenta la goccia che, come fosse un deus ex machina, conduce i personaggi alla consapevolezza. Ci sarà chi decide di continuare a lottare, chi dichiarerà il proprio innocente amore o confesserà le proprie debolezze...

Altro appunto non meno importante, il rapporto d'amore non convenzionale gestito anche all'interno della sfera familiare: le relazioni tra padre-figlia, matrigna-figlia, fuori da ogni stereotipo, sembrano quasi amichevoli, sinceramente turbolente ma intense, e poi c'è il coraggio di lei, Juno, che è la vera spinta all'interno della narrazione, nonostante la giovane età è una di quelle che non hanno paura di affrontare la realtà, non se la raccontano e sono capaci di esprimere un'emozione senza fronzoli. Ammirevole.

E' cinema indipendente nelle inquadrature “alla Anderson”, frontali, fatte di dettagli e particolari, nella presentazione quasi fumettistica di alcuni personaggi, magari introdotti da una voice over e illustrati da immagini descrittive nelle loro caratteristiche e bizzarrie .
Un “Favoloso mondo di Amélie” in salsa indie-pop americana che dunque si trasforma nel favoloso mondo di Juno, fatto da una realtà avulsa dalla normalità, dalla monotonia e ricca di sfumature, storie divertenti da raccontare e discorsi da affrontare senza peli sulla lingua.







martedì 25 giugno 2013

Lost in Traslation

Un film di Sofia Coppola con Scarlett Johansson, Bill Murray. 2003, USA

Non ho potuto fare a meno di dedicare un post a questo gioiellino romantico imperdibile.
La lista di premi vinti, non a caso, è quasi infinita e, tra tutti, in linea con il blog, cito quelli vinti agli Independent Spirit Awards: miglior film, regia, sceneggiatura e attore protagonista.

Una giovane sposa in cerca d'ispirazione, un po' acerba, un po' lolita, si aggira in un lussuoso hotel di Tokyo, dove è approdata per seguire il marito e i suoi impegni di fotografo eccentrico mentre lo stesso fa un affascinante attore di mezza età, disilluso e malinconico, in città per girare uno spot pubblicitario. Complice l'insonnia entrano l'uno nella vuota esistenza dell'altra.

Un'ottima opera seconda con la quale Sofia Coppola inaugura il suo interesse a quei due filoni particolari che si ritroveranno anche nei film successivi: il rapporto con il padre e la presenza del non-luogo per eccellenza, l'hotel, a cui è dedicato praticamente quasi tutta l'opera: hotel che per la Coppola significa praticamente sempre precarietà, ricerca di radici, di intimità e stabilità.

Affascinante il tema così etereo ma prepotente sulla scena, sia emotivamente che visivamente, dell'affetto amorevole e sensuale che può nascere tra due persone molto distanti d'età e molto vicine d'animo: un'emozione da proteggere e sfiorare con attenzione.
Un connubio romantico, Scarlett Johansson-Bill Murray fluttuanti tra i proprio desideri, in cui lei rappresenta al meglio un personaggio ingenuo, libero e senza malizia mentre lui, con una splendida interpretazione, racconta un uomo romantico che non esiste più, quello che fa sorridere con la sua malnconia.

Un film che stimola da diverse direzioni perché, la trama è semplice ma allo stesso tempo ricca di spunti secondari, di riempimento, molto piacevoli e mai inutili, sempre capaci di portare avanti la narrazione, mentre la recitazione è intensa, piena di sottotesto, molto fitta anche nei silenzi, così completi di parole e sentimenti sempre intuiti come una poesia delicata che deliziosamente suona leggiadra. La colonna sonora è, come spesso accade nei film della Coppola, sempre disarmante: con una consapevolezza musicale rara, la regista accosta e mixa contenuti e generi differenti e ultra-contemporanei perfetti sotto le immagini pop-romantiche quasi descritte da quelle note. 

Buona protagonista, non ingombrante ma interessante nella sua freddezza cromatica ed umana, è Tokyo, con i suoi colori, la gente indifferente e una vista spettacolare: una città non solo ammirata dall'immensa vetrata ai piani alti dell'hotel, ma vissuta dal basso, per le strade, nei locali underground.


Uno dei finali più belli della storia del cinema.




sabato 22 giugno 2013

Living in Oblivion - Si Gira A Manhattan

Un film di Tom Di Cillo con Stev Buscemi, Catherine Keener. USA, 1995.

Opera seconda scritta e diretta dal grande Tom Di Cillo, vincitrice di diversi premi, tra cui quello per la sceneggiatura al Sundance, è un vero gioiellino della cinematografia indipendente americana, quella della “scuola” Jim Jarmusch tanto per dire, per il quale Di Cillo stesso ha curato la fotografia di Coffee and Cigarettes .

Va in scena una troupe scapestrata alle prese con un film indipendente dopo il quale tutti giurano di ritirarsi. Una produzione low budget fatta di microfoni in campo, fuori fuoco, piani sequenza impossibili da girare ed esplosioni di lampade grottesche e divertenti.
Un'assistente alla regia isterica e una prima attrice calata in pieno nello stereotipo (?) della fragile starlette che vuole essere rassicurata: è questo lo scenario allarmante che si presenta davanti agli occhi increduli di un capo baracca strepitoso, Steve Buscemi, che interpreta il regista di Living in Oblivion, il film nel film.
Ma fino a che punto il film nel film è il vero film? Quando smette di essere un film reale e diventa il film in un sogno?

Solo un'ottima mente avrebbe potuto giocare d'azzardo e intrecciare piani di realtà tanto diversi ma al contempo uguali con cotanta abilità, senza parlare del sapiente uso del bianco e nero che (fino a prova contraria) è dedicato al film nel film, mentre la diegesi vera e propria è a colori. Caldi, saturi, dalla grana anni Novanta.

E non di meno può mancare l'amore, su un set (uno dei veri e propri luoghi più promiscui nel mondo del cinema), talvolta nascosto, non corrisposto o tradito, ma comunque presente in prima linea, sempre pronto a rovinare fragili e già labili equilibri interpersonali.

Un'autentica prova di regia per Di Cillo: un'opera autobiografica che nasce quasi per caso dopo i postumi da set di Johnny Suede e prima della lavorazione di Box of Moonlight, per esorcizzare un malessere diventato visionario capolavoro dall'estetica underground, realistico ritratto di un set indipendente allo sbaraglio animato da un divertente delirio di squadra.



giovedì 20 giugno 2013

Adaptation - Il Ladro di Orchidee

Un film di Spike Jonze con Nicolas Cage, Meryl Streep. USA, 2002.

Cos'è un fiore? Come drammatizzare un'orchidea fantasma che fa parlare di sé nascondendosi nei giardini più misteriosi celando il suo soprannaturale candore all'umana mediocrità?

Un trionfo di digressioni, flashback, ricordi e mise en abyme per un dramma cupo che aleggia nella sua stessa atmosfera sognante senza dare vero carattere all'intera narrazione.

Una giornalista (Meryl Streep) con un pezzo da scrivere e trasformare in libro e uno sceneggiatore disturbato con un copione da terminare. Tanti fiori da raccontare, e se è vero che “ognuno di noi ha il proprio genere”, anche questo film in sé ne racchiude molti.
C'è il lato comico della nevrosi del protagonista, goffo ed impacciato, tormentato da un fratello gemello insistente ed ingombrante (Nicolas Cage per entrambi i ruoli), c'è il mistero dell'orchidea, quasi un MacGuffin hitchcockiano - pretesto simbolico, motore di praticamente tutta l'azione - c'è un tocco thriller sul finale, in cui un potente climax esplode dal nulla in tutta la sua spaventosità, e poi c'è la parte più romantica ed amorosa del film, certo un po' sacrificata, ma comunque significativa.

Suggestive riprese naturali quasi documentaristiche sugli atti d'amore tra insetti e fiori a loro immagine e somiglianza.

Un'opera metafilmica: un film nel film e un libro nel film nonché un film sul libro, una metanarrazione rinchiusa in un efficace miscuglio di passato e presente, finzione e realtà, impossibile da districare ma magicamente ed immediatamente comprensibile.

Tra i personaggi più interessanti, anche senza essere sotto l'effetto dell'orchidea fantasma che provoca estrema fascinazione, c'è sicuramente John Laroche (Chris Cooper, a cui infatti sono stati assegnati diversi premi): romantico anti-eroe divertente, un po' innocente un po' criminale ma buon amante ed ottimo cantore.


Ci si perdona e ci si dispera sotto le note di Happy Together.



martedì 18 giugno 2013

Greenberg

Un film di Noah Baumbach con Ben Stiller, Mark Duplass, Greta Gerwig. USA, 2010

Presentato al Festival di Berlino, è il sesto film da regista dell'americano indipendente Baumbach.

Nonostante all'inizio sembri raccontare la storia di una tipica famiglia americana padre, madre, con bambini giardino e cane al seguito in procinto di partire per una vacanza in Vietnam, in realtà, Greenberg narra non tanto la storia di chi parte bensì le vicende di chi resta. E restano a casa, a Los Angeles, la dogsitter Florence (Greta Gerwig) e il fratello del padrone di casa per cui lei lavora, Roger Greenberg (Ben Stiller finalmente in un ruolo non demenziale), appena uscito da un esaurimento nervoso.

L'incipit è quello tipico della commedia americana tradizionale: un brano musicale carico e l'introduzione del personaggio di Florence, attorno alla quale si snoda l'intero film.
Instabilità e precarietà sentimentale per lei e un esaurimento da cui uscire con un graduale rientro in società e vecchi amici da riaffrontare per lui.

Nostalgico sguardo al passato e alle riaffioranti questioni mai affrontate, nelle quali si intromette con prepotenza un nuovo sentimento difficile da gestire, una relazione combattuta che nessuno dei due protagonisti sa far decollare.

E' tra cd musicali scambiati, lettere improbabili ed una morbosa insanità mentale, che nascono quasi dal nulla i temi fondanti di un film dal piglio contemporaneo: la paura, la precarietà nonché il confine sempre troppo labile ed impalpabile tra instabilità mentale conclamata e assurda normalità odierna.

Regista indipendente molto apprezzato in passato anche al Sundance, Baumbach ha anche collaborato con Wes Anderson avendo partecipato alla scrittura di ben due suoi film: con questa sua ultima opera però abbandona l'estetica elegante e indie-pop “alla Anderson” per mettere in scena le sue carte più mumblecore e confezionare un film che purtroppo stenta a fiorire.

Gli ingredienti indipendenti ci sono - Mark Duplass in un ruolo secondario ma efficace, Chris messina ottimo prezzemolino del genere, i temi e il disagio della generazione dei cosiddetti thirty-something in balia di loro stessi, una protagonista single un po' artista un po' inetta e una grande attenzione musicale - ma vengono oscurati da un uso troppo convenzionale e mai autorale di una macchina da presa praticamente invisibile, come non lo è mai in questo tipo di film.



venerdì 14 giugno 2013

The Darjeeling Limited

Un film di Wes Anderson con Owen Wilson, Adrien Brody, J. Schwartzman, USA, 2007
E' stato presentato a Venezia ed è la sesta prova di regia dell'indie texano Anderson, perla rara scritta insieme a Roman Coppola (con cui continua ancora oggi un efficace sodalizio artistico) e a uno dei tre splendidi protagonisti, l'attore Schwartzman.
Ad aprire la scena è un viaggio cinematografico all'interno di un taxi spericolato con a bordo uno dei cammei più misteriosi dell'intero film: Bill Murray e le sue due vintage valigie. Sceso dall'auto, inizia a correre ma il Darjeeling Limited, si sa, non aspetta nessuno.

Il viaggio continua, ma a bordo dell'eccentrico, colorato, scanzonato e malconcio treno per Darjeeling, su cui viaggiano tre bizzarri peronaggi “alla Anderson”: tre fratelli in missione per conto di se stessi, con un itinerario da rispettare e l'intenzione, dopo un anno di silenzio reciproco, di ricominciare a fidarsi l'uno del dell'altro.
Un patto di fratellanza serratissimo, dunque, condotto dal fratello maggiore, abile regista dell'incontro, che con maestria e teatrale supponenza tesse le fila di una famiglia in subbuglio.

C'è tutto Anderson in questa commedia multicolor: puro virtuosismo ed eccellente estetica cinematografica, fino all'ultimo fotogramma.
Attualmente in post produzione con il nuovo film in uscita nel 2014, The Grand Budapest Hotel, il suo cinema è sempre iconico, pop, fatto di colori e fronzoli ma anche di inquadrature più che studiate con acuta finezza: mezzi primi piani, primi piani frontali, sguardi in macchina, particolari e dettagli mozzafiato.
Inquadrature fisse o carrelli a precedere dall'intrinseco valore semantico, rappresentano una storia raccontata anche grazie al delicato valzer della macchina da presa che poetica e malinconica balla, cantando la sua verità
Plongée e contre-plongée audaci, con camera completamente a picco puntata verso l'alto o il basso, il più delle volte a solleticare quel vizio artistico, marchio di fabbrica, firma d'autore, di riprendere le mani dall'alto: mentre guidano, servono una bibita, aprono una valigia o accarezzano profumi.

E poi c'è una sceneggiatura impeccabile suonata da musiche di prima scelta.

Finale epico che non svela il suo arcano, almeno non prima di essersi gustati, come a non averne mai abbastanza, il piccolo prequel Hotel Chevalier: dieci minuti di poesia d'autore interpretati dalla coppia Schwartzman-Natalie Portman, da cui Anderson riprende il feticcio dell'oggetto, il ton sur ton giallo limone di arredi e pareti, e lo stile tutto.

Piccoli gioiellini crescono: ambientato a Parigi è la base di racconto ideale, da sola o collegata al Darjeeling Limited, senza dimenticare che, comunque, “quei personaggi sono inventati”.

lunedì 10 giugno 2013

Junebug

Un film di Phil Morrison con Amy Adams e Alessandro Nivola. USA, 2005.

E' passato dal Sundance e mi è ancora sconosciuto il motivo dell'ottimo successo che ha ottenuto tra i critici e sui maggiori siti cinematografici internazionali.

E' una dramedy scura e ansiosa, quasi spiazzante: racconta la storia di una giovane donna in carriera (interpretata dall'attrice Embeth Davidtz), proprietaria di una galleria d'arte a Chicago, in viaggio con il neo-marito (Alessandro Nivola) alla volta del North Carolina per conoscere un grande artista da esporre presso di lei.
Tappa necessaria, la casa di famiglia di lui, casualmente in zona e quindi da visitare. E' qui che la sparuta Madeleine viene inglobata in un vortice d'insana bizzarria che la porterà a non riconoscere più se stessa, ma soprattutto il suo fresco marito. Tra le grinfie di una famiglia poco accogliente, una cognata incinta, ingenuamente bambina ma sofferente, ed una suocera scostante e torva, il weekend trascorre e muore, cupo ed inospitale.

E' tra violenza psicologica, non detti e tristi scoperte che si snoda una trama un po' povera, abitata da personaggi deboli, rinchiusi in poco malleabili stereotipi che non riescono ad interagire al meglio tra di loro. Tre coppie, tre generazioni e tre amori silenziosi ed amari, ognuno con un piccolo neo da nascondere, immersi nello squallore di una famiglia disamorata, in cui non c'è più spazio per alcun sentimento gentile: un tema difficile quello della complessità dei rapporti umani, ma nonostante tutto, poco sviluppato.

Se tecnicamente è quasi impossibile trovare una volontà particolare dietro scelte registiche poco autoriali, in quanto a recitazione, spicca positivamente Amy Adams (già recensita in Sunshine Cleaning), sempre brava e capace di elevare il proprio personaggio oltre la mediocrità degli altri (in questo caso, primo tra tutti, il personaggio interpretato dall'abbastanza scarso Ryan di O.C., Benjamin McKenzie).

Un film poco raffinato, con evidenti errori, soprattutto di continuità, che non si lasciano perdonare (come succede spesso in altri film comunque deliziosi) dall'eccellenza di altre caratteristiche su cui concentrarsi.

Colonna sonora quasi inesistente fatta eccezione per un unico brano (ottimo) che apre e chiude il film, scritto dall'immenso Stevie Wonder: Harmour Love.

venerdì 7 giugno 2013

See Girl Run

Un film di Nate Meyer con Robin Tunney e Adam Scott. USA, 2012.

E' l'opera seconda del regista indipendente Nate Meyer: una dramedy in bilico tra
romanticismo e disillusione. Portland e Brooklyn.

Splendida protagonista è Emmie (Robin Tunney), con un matrimonio in crisi da salvare ed un fidanzato dei tempi del liceo ancora formalmente da lasciare, un viaggio da affrontare fatto di ritorni, al passato, alle proprie radici, a quello che non c'era o non c'è più, in un percorso di personale ricreazione emotiva dal finale abbastanza inatteso.
Una ridefinizione delle proprie esigenze è ciò di cui Emmie necessita nel suo momento di bilancio più confuso e, tornando allo stato di figlia, nella casa di famiglia, prova ad allontanarsi dalla se stessa più esigente iniziando a solleticare il “magico se” della vita.

Una protagonista per due storie parallele ed incrociate, in un chiasmo emozionale al cui calore familiare corrisponde uno spiazzante gelo matrimoniale, da distruggere o salvare.

Un racconto onesto, di quotidiana difficoltà, che conserva però, riservandosi tempistiche proprie, la leggerezza dei momenti più spensierati, quelli tipici di un sereno ritorno alle origini ed alle lunghe chiacchierate con chi si ama.

Una riflessione sull'idea contemporanea di felicità, come condizione dovuta a chi, non raggiungendola, scappa altrove: un film sulle alternative, sulle reazioni umane all'amore, in ogni sua assenza e conseguenza.

Ci sono la malinconia di Celeste and Jesse forever, l'insanità e il disagio sociale di Silver Lingings Playbook e il fallimento di Young Adults. Il regista, affronta le tematiche delicate dello spirito infranto che soccombe alle proprie debolezze, dell'alcolismo, dell'incapacità di affrontare il passato e la profonda piaga di un'intera generazione: la paura della responsabilità, tutte non-qualità che rendono i bravi protagonisti solo dei poetici inetti che si crogiolano nelle loro manchevolezze senza il coraggio di distruggere ciò che vorrebbe dire ricostruire.

domenica 2 giugno 2013

Everything is Illuminated

Un film di Liev Schreiber con Elijah Wood, Eugene Hüz. USA, 2005

E' l'opera prima (e ad oggi ancora ultima) del regista e attore americano Schreiber: trasposizione cinematografica dell'omonimo libro, è stata presentata con successo a Venezia, vincendo i premi Lanterna magica e Biografilm.

Elijah Wood interpreta lo scrittore Jonathan Safran Foer che dall'America intraprende un viaggio attraverso le sconfinate vallate dell'Ucraina alla ricerca delle proprie radici e di ricordi che gli parlino dell'amato nonno.
Un road movie a capitoli che vede i tre protagonisti andare alla ricerca del proprio passato ormai lontano ma ancora fin troppo presente, tra riflessioni politico-religiose, rivelazioni e vere e proprie illuminazioni.

Temi fondanti della ricerca, anti-semitismo, distruzione nazista, del ricordo e della convivenza tra diversi (protagonisti agli estremi: l'ebreo, l'anti-semita e il nipote nel mezzo) portano al grande tema finale che è quello della redenzione dei cattivi, la riappacificazione con se stessi dei buoni.

Un film più scuro di quanto ci si possa aspettare: somiglia poco ai consueti ridenti film firmati dai produttori Turtletuaub-Saraf (Little Miss Sunshine e oltre) che in sé contengono anche molto dramma ma quasi sempre esorcizzato da una brillantezza speciale che qui si ritrova, in misura molto modesta, solo nell'incipit, durante la scena del ristorante, quando Jonathan racconta di essere vegetariano, smorzando così, piacevolmente e con toni scanzonati, la tensione d'inizio film.
Poca commedia e poca brillante irriverenza, dunque, rendono il film a tratti noioso: visionato in italiano (tragedia), risulta altresì incomprensibile poiché, in seguito a discutibili scelte di doppiaggio, il recitato in russo (o ucraino) non è stato tradotto né sottotitolato. Ovvero almeno la metà del film. Perché mai?

Dei film targati Big Beach rimangono l'essenza del road movie, la presenza di tre personaggi bizzarri che pur non avendo nulla in comune si ritrovano coinvolti in un'avventura collettiva e i paesaggi ucraini scorrevoli dietro i finestrini di un'auto azzurro pastello tanto malandata quanto affascinante e pregna di storia e leggenda.
Un tiepido esordio alla regia che però segnala una certa consapevolezza estetica, un evidente stile personale fatto di inquadrature strette ed attenzione per i dettagli: oggetti, collezioni, particolare e frammenti vengono esaltati all'interno della narrazione, come nei migliori film di Wes Anderson, senza indugiarvi con ridondanza.

Elijah Wood, precisino perfetto in ruoli goffi, da occhiali nerd e completi impeccabili, è in estrema antitesi con Alex, interpretato dal bravo Eugene Hüz, attore americano d'origine sovietiche malamente doppiato, membro, tra le altre cose della gypsy band Gogol Bordello, il cui resto dei componenti compare alla stazione nei panni della banda musicale d'accoglienza per Jonathan. Colonna sonora ottima protagonista.

Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato… dall'interno guarda l'esterno, come dici tu alla rovescia… in questo modo io sarò sempre lungo il fianco della tua vita e tu sarai sempre lungo il fianco della mia vita.”


L'illuminazione a cui si aspira, quella dello spirito, diventa brillio estatico nella scena dei girasoli: uno sconfinato campo aranciato divide la strada dalla casa delle rivelazioni e va attraversato con speranza, consapevoli del fatto che, ancora una volta, l'importante non si rivela la meta, bensì il viaggio intrapreso per raggiungerla.