Un uomo nel metrò, un gatto e una
chitarra: è il Greenwich Village degli anni ’60.
Un incessante vagabondare di
note e storie da raccontare nel buio dei locali notturni in una New York
dipinta da cantori tristi, senza letto e senza amori. E tra i padri del folk
americano si leva il nome di Dave Van Ronk, alla cui vita si ispira
quest’ultimo film dei fratelli Coen.
Ed è una triste introspezione questo
viaggio nel cuore di Llewyn Davis: un
giro amaro in una vita desolata e sofferente scandita da una colonna sonora
che è una scintilla vivace che scalpita all’ombra di una fotografia blu notte e
gelida, come un caffè ardente dopo aver camminato sulla neve. Oscar Isaac dà il
volto alla solitudine del musicista che non si lascia scappare e ogni volta
ritorna. Tornano i Coen delle storie intime, delle sceneggiature magistrali e
delle sensibilità musicali. Tornano i visi segnati dalle illusioni, e gli occhi socchiusi della sera.
Un cinema più maturo rispetto ai
tempi di Lebowski, il drugo con il debole per i cowboy come concetto, che si è evoluto e oggi parla di un uomo senza qualità che, se nella vita è destinato al fallimento, riesce a
fare dell’intero film, un’estatica esperienza sonora. Incantevoli corde
sfiorate, malinconici banjos pizzicati e Inside Llewyn Davis è pronto per il
suo pezzo finale, quello che avrebbe sancito l’inizio dell’immortale leggenda.
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