giovedì 28 febbraio 2013

Paris-Manhattan

Un film di Sophie Lellouche con Alice Taglioni, Partick Bruel. Francia, 2012

C'è la colonna sonora jazzeggiante, ci sono le lunghe panoramiche d'interno sui titoli di testa, le aspirine, vecchi dischi, libri, boule de neige e poi c'è lei: Paris. E Manhattan.
Non siamo in uno dei più romantici film di Woody Allen ma in quello che nelle intenzioni, e probabilmente anche nei risultati, è un grande omaggio al genio americano per mano della giovane Sophie Lellouche al suo esordio cinematografico.
Una vera e propria ossessione per Woody Allen è quella della protagonista Alice (non a caso) che, come Woody faceva con Bogart, intraprende per tutto il film amabili chiacchierate immaginarie col regista discorrendo a proposito d'amore, vita ed altri disastri. Oscurata dalla sorella appariscente dedita al pilates, “quella nuova versione di yoga in salsa kamasutra”, Alice è destinata alla sfiga perenne, condanna tipica di ogni donna bella ed intelligente con un qualche tipo di velleità artistica: farmacista cinefila lavora nel negozio di famiglia consigliando ad avventori incuriositi, film guaritori dall'effetto miracoloso adatti ad ogni tipo di male possibile.
Al noioso party altolocato poi arriva lui, bello e brillante che non ha mai visto un film di Woody Allen: Patrick Bruel, già visto recentemente in “Le prénom” (Cena tra amici) di de La Patellière e Delaporte e che in questo film confeziona allarmi al cloroformio capaci di stendere in trenta secondi ogni ladro malintenzionato, che una donna che lavora e vive sola, si sa, delle precauzioni dovrà pur prenderle.
Dopo aver letto la sceneggiatura, lo stesso Woody Allen ha accettato di comparire in un piccolo cameo sul finale del film, rendendo un leggero racconto francese, un esordio di tutto rispetto, poco paragonabile alle pellicole del maestro ma indipendentemente autonomo in sé, nonostante il perpetuo richiamo ad un cinema altro che, pur essendo continuamente presente, non invade un modo di fare cinema personale ed un po' francese, come quello della regista Lellouche.



domenica 24 febbraio 2013

BERNIE by Richard Linklater

Un film di Richard Linklater con Jack Black, Shirley MacLaine. USA, 2011

Richard Linklater ha colpito ancora, ma in attesa del suo ultimo film presentato da poco al Sundance 2013 che andrà a chiudere la magica storia di Celine e Jesse, amanti sospesi ed in viaggio da diciotto anni per il mondo, non ci si può dimenticare di “Bernie”.
Non arriva in Italia ma ottiene una nomination ai Golden Globes: una storia vera per un film trasversale con un inizio da commedia indipendente che sfiora la cupezza del dramma ed inaspettatamente diventa noir.
Jack Black è Bernie, l'uomo ideale che ogni madre vorrebbe al fianco della propria illibata figlia, dolce e premuroso, con una laurea in scienze mortuarie e tante gentili attenzioni da riservare al prossimo. Una vera e propria istituzione per gli abitanti della cittadina texana in cui egli svolge quotidianamente la propria attività quasi come fosse una missione di vita, per accompagnare i parenti dei defunti negli abissi di un percorso che dall'accettazione possa trasformarsi addirittura in delicata parentesi di serena consolazione.
Ma sarà proprio quando Bernie tenderà la sua mano alla ricca vedova Marjorie che la commedia virerà al dark facendosi sempre più misteriosa. Interpretata da Shirley MacLaine, la silenziosa e scorbutica anziana, non vorrebbe accettare l'aiuto di chicchessia, pur tuttavia anche la sua fredda misantropia non saprà resistere alle gentili attenzioni di un giovane uomo di chiesa che predica amore ed offre cioccolata.
Cosa resterà dell'angelico ministrante Jack Black quando l'iniziale docilità di Marijorie si trasformerà in ossessionante dispotismo?

Ottima trasposizione cinematografica di un fatto realmente accaduto che il regista Linklater ha saputo tradurre in immagini con leggerezza ed ironia sapientemente distribuite in una trama nel complesso macabra, resa allegra attraverso gli occhi del protagonista, punto di vista esclusivo del film.

Un approccio quasi giornalistico, in alcune parti del film, rende la finzione ancor più reale come se si trattasse di un vero documentario con le interviste ai residenti di Carthage; e quasi lo diventa proprio perché i personaggi che rispondono alle domande, lungi dall'essere veri attori, danno così naturalmente vita a tale espediente che oltre ad aumentare la leggerezza della trama, riesce a conferire il giusto movimento al film, alternandosi alla fiction vera e propria.
La cura della colonna sonora si riscontra in ogni scelta musicale, tra cui la perla “Love Lifted Me” cantata dallo stesso Black in auto, jazzeggiante e frizzantina come una passeggiata mattutina tra i quartieri del villaggio. Un bel film da vedere ed ascoltare.

giovedì 21 febbraio 2013

Silver Linings Playbook

Un film di David O. Russell con Jennifer Lawrence, Bradley Cooper, Robert De Niro. USA, 2012

Concorre agli Oscar 2013 con 8 nominations e di diritto gli spetterebbero tutti i premi possibili.
Il nuovo film dell'italo-americano David O. Russel è una divertente riflessione sul significato di pazzia, amore, colpa ed espiazione.
E' la storia di Pat (Bradley Cooper) e Tiffany (Jennifer Lawrence) sofferenti outsider emarginati da un mondo apparentemente normale, che arrancano nella confusa nebbia della loro vita, sopraffatta da emozioni difficilmente gestibili ma comprensibili, nonostante gli ostacoli e le restrizioni cui sono vincolate, per mano, molto spesso, di genitori troppo apprensivi, o al contrario, assenti e persi nelle proprie frivolezze.
La sindrome bipolare di lui e la dipendenza da sesso di lei rappresentano le due grandi anormalità che il mondo rifugge impietosamente ma che rendono fin dall'inizio i bizzarri protagonisti le uniche due figure positive del film le quali, salvandosi a vicenda, portano a termine la loro sacra queste come in un romazo cortese in cui finalmente anche al villain è dato di diventare eroe e scoprire l'arcano mistero della vita.

Una coppia perfetta che dona un equilibrio speciale ad una trama esplosiva, ricca di scene amabilmente grottesche ed al contempo ironiche, prima tra tutte quella dell'indignato Pat che, deluso dal finale dell' “Addio alle armi” di Hemingway, che pure le sue crisi maniaco-depressive le aveva, lancia nottetempo il libro dalla finestra svegliando i genitori e volendo esprimere loro il suo più fervido disappunto. Ed anche il padre di Pat non sembrerebbe condurre una vita monotona e scevra da strane psicomanie: si parla di un Robert De Niro divertente ma inetto e sprevveduto, quasi senza speranza, concentrato su fallimentari e pericolose scommesse in grado di portare, se possibile, ancor più scompiglio all'interno di una famiglia già di per sé originale e movimentata.

mercoledì 20 febbraio 2013

For A Good Time, Call...

Un film di Jamie Travis con Ari Graynor, Lauren Miller. USA, 2012


Arrivano dal Sundance 2012, sono belle, simpatiche e perennemente impegnate a complicarsi la vita. 
Non è la storia di due amiche banali che chiacchierano al bar di uomini e cellulite bensì dell'evolversi dell'educazione sentimentale di due donne distanti in grado di rendere la propria vita un'esplosione di colori.
Lauren e Katie, nonostante divergenze liceali non ancora superate, si ritrovano a dover condividere un appartamento altrimenti troppo dispendioso e, come da prassi, a seguito di un'iniziale comprensibile diffidenza, diventano inseparabili amiche. Cominciano a lavorare insieme creando e gestendo un centralino erotico dal nome buffo e dai teneri telefoni rosa confetto che le vede protagoniste di finti amplessi vocalmente sensuali, per loro presto giochi divertenti con i quali affermare la propria dignità di donne in carriera, indipendenti, mai umiliate e, perché no, innamorate.
Ma un rapporto che si fa morbosamente sempre più empatico, si sa, è destinato a fallire se gli equilibri cominciano a vacillare...

Una divertente comedy colorata e frizzante che rappresenta l'ultima fatica del poco più che trentenne Jamie Travis, regista canadese già noto grazie a pluripremiati cortometraggi e videoclip musicali ed è proprio una spiccata sensibilità musicale che rende il film ancor più godibile, con una colonna sonora romanticamente esplosiva, da cantare in piedi sul letto con una spazzola come microfono.

La composizione delle immagini, perfettamente equilibrata, non nasconde un proposito scenografico che vede, nell'accumulo disordinatamente studiato, la giusta soluzione per rappresentare al meglio l'appartamento di due donne dinamiche, eccentricamente vestite pronte a ridere di se stesse e di ciò che, pur divertendosi, sono costrette a fare per sopravvivere.
Una sorta di Girls dieci anni dopo...sarà forse questo il futuro delle favolose slacker di Lena Dunham?

CELESTE AND JESSE FOREVER


Un film di Lee Toland Krieger con Rashida Jones, Andy Samberg. USA, 2012

Esce dal Sundance 2012 e non arriva in Italia Celeste and Jesse Forever, perla indipendente che parla d’amore in modo non convenzionale.


Los Angeles. Celeste e Jesse, sprovveduti innamorati fin dai tempi del liceo, giovanissimi sposi follemente convinti ed incoscienti, non stanno più insieme e quella che il disamorato comune mortale chiamerebbe “separazione in casa”, diventa un fantastico pretesto per raccontare una storia contemporanea che fa del misterioso confine amore-separazione un motivo di forza.

Sono affinità elettive che si attraggono e respingono in un gioco speciale di cuori infranti che non sanno ricostruirsi senza prima dolcemente distruggersi tra l‘accettazione e la rassegnazione di chi non vorrebbe, ma lascia andare perché ama.
C’è una sola certezza per Celeste e Jesse (oltre alla strabiliante quasi omonimia con i due innamorati di Linklater, anch’essi affezionati al Sundance): quella di essere i perfetti maestri della loro cerimonia, creatori di sogni  e di una relazione inventata ma di fatto viva ed intensa come la loro essenza di coppia, al profumo di complice carezza che si spande con prepotenza su tutto quanto si appresti, dopo il loro tocco, a trasformarsi in fraterno amore.
Un’ottima regia per il trentenne californiano Lee Toland Krieger che al Sundance aveva presentato anche il suo film del 2008 The vicious kind e che con la sua ultima fatica entra senza arroganza nella magica cine-camarilla indie, scegliendo protagonisti dalle bellezze sensualmente inusuali stretti in un amore ironico e doloroso sotto le note di una colonna sonora fresca ma all’occorrenza malinconica.  Rashida Jones nei panni della risoluta e romantica Celeste è la compagna ideale del sofferente Jesse (Andy Samberg), emblema dell’uomo anti-eroe divertente e sensibile, certamente amabile che non temendo la propria fragilità, la dichiara al mondo trasformandola in forza. C’è spazio anche per Elijah Wood, geniale ruolo secondario amico di Celeste, che non si tira indietro nell’assolvere la sua parte di consigliere fidato così come i restanti amici della coppia, tutti increduli e stupiti per una gestione tanto eccezionale di un rapporto consumato ma difficile da dimenticare.
Una camera a spalla rende ogni movimento tecnicamente e drammaturgicamente significativo, amplificato da un montaggio particolare per cui lo stesso soggetto, in alcuni momenti topici del film, viene inquadrato da diversi punti di vista e il susseguirsi delle immagini con il crescendo della loro potenza raggiunge climax inaspettati tradotti in epifanie sorprendenti con le quali ogni cosa si manifesta sotto la sua forma più pura. Una cine-coccola da gustarsi senza fretta.

Recensione già pubblicata su http://inchiostro.unipv.it/?p=10397

SUNDANCE "ON THE ROAD"


Sembra ancora di sentirli quei poeti: “[...] pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi d’ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano [...]”, quegli artisti di vita, vagabondi d’America, suonatori nati tristi amanti liberi. Difficile scriverne. Eppure c’è un luogo lontano, in cui i film su di loro, folli beatniks, ogni anno si sprecano, ed è la cittadina di Park City nello Utah che inevitabilmente significa Sundance Film Festival.
Pochi anni fa è passato di lì “Howl”, capolavoro sperimentale sulla scandalosa vita del poeta che più di tutti ha svegliato le menti della sua generazione grazie ai suoi scritti, Allen Ginsberg, interpretato da James Franco. L’anno scorso l’ha sfiorato “On the road” e quest’anno, al calar del mese, sarà la volta di altre due pellicole in tema.
Ma in principio fu “Pull my Daisy”. Scritto dallo stesso Kerouac, cui appartiene anche la voice over, fu la prima opera cinematografica a portare sugli schermi la controcultura beat. Un gioiellino interpretato e girato dai veri protagonisti, tra cui Gregory Corso e Allen Ginsberg, quelli che la beat generation l’hanno inventata. Quelli che si incontravano nei vecchi appartamenti newyorkesi, giorno e notte, tra la benzedrina e la promiscuità sessuale, a raccontarsi poesie sognando la rivoluzione. Quelli che hanno infranto i sogni di chi era convinto che questo film diretto da Frank e Leslie fosse pura avanguardia documentaristica.
“Porta il pardiso a Denver” disse Dean all’amico fraterno Sal.
Se solo Marlon Brando avesse acconsentito a collaborare con lui, oggi Kerouac non si rivolterebbe nella tomba per l’ultimo film firmato Walter Salles, “On the road”.
Malrecitato ed affrettato, poco romantico e lontano anni luce dall’atmosfera madre di un’epoca che nasceva sotto le note di quella musica nuova che il bebop era, vanta la sola buona presenza di Steve Buscemi commesso viaggiatore, unico talento capace a riportare tra i vivi un cast di per sé poco affiatato con Kristen Stewart, icona-vampira della quale conserva il pallore e gli attori tutti, destinati all’oblio, invasati da una frivola ninfomania gay allucinata ed inverosimile che in letteratura pareva possedere tutt’altro spessore poetico.
Ci riprovano quest’anno Michael Polish con “Big Sur” a raccontare la vita sfrenata di un Kerouac ormai quarantenne in ritiro spirituale, vittima del successo ottenuto negli anni ed in preda all’alcolismo, e John Krokidas con “Kill your Darlings” misterioso ritorno alla vita di Ginsberg, questa volta interpretato da Daniel Radcliffe, con un tocco thriller tra amori impossibili e cantori disperati.
“Il jazz si è suicidato” scriveva Kerouac, fate che il cinema non faccia la stessa fine.

Recensione già pubblicata su http://inchiostro.unipv.it/?p=9901

TINY FURNITURE


La prima volta l’ha fatto con Obama, parola di Lena Dunham.
Potrebbe risultare una dichiarazione pretenziosa, ed invero ha creato non poco scalpore inizialmente, invece, ed è già roba vecchia per chi sta sul pezzo come lei, si tratta di un semplice ed irriverente video-invito a votare Obama for president, perchè non la daresti mai (la fiducia) ad uno che non è carino, non ti ama e non si batte per i diritti delle donne.
La vedi negli show americani più alla moda flirtare maliziosa al cospetto di divertiti e sposati presentatori rapiti dalla sua simpatia, e subito dopo una battuta trasgressiva che manda in visibilio fior fior di pubblico attentamente selezionato, sboccia in un innocente sorriso da bambola, simile a quello del personaggio che spesso incarna, come fosse la Woody Allen dei nostri giorni, nei film e nelle web-serie-tv che dirige ed interpreta dando voce alla sua pazza pazza generazione.
Tra problemi d’amore, rapporti familiari sempre complicati e malattie sessualmente trasmissibili raccontate alle amiche, Lena Dunham mette in scena la vita normale dei giovani americani che, non a caso, l’hanno eletta, profeta in patria, paladina del magico mondo a cavallo tra il college ed il lavoro, anche oltreoceano misteriosa fucina d’incertezze, dove pure Aura, dopo essersi laureata in cinema, torna a casa e non sa che fare. Tutto questo e molto altro è “Tiny Furniture”, un piccolo film indipendente del 2010, valso all’allora ventiquattrenne Dunham premi su premi, tra cui quello per la miglior sceneggiatura esordiente agli Independent Spirit Awards 2011.
Metti una famiglia in scena, la vera madre e la vera sorella in campo ed è pronto il ciak, perchè se in America il cinema lo studi, finisce che ti ritrovi a farlo per davvero, e può essere autobiografico tanto per iniziare, come millantano tutti i grandi artisti.
E a guardare questa seconda fatica da filmmaker di Miss Lena ci si sente un po’ come dopo il finale di stagione di un bel telefilm, pieni di speranzosa fiducia in attesa di un seguito altrettanto amabile (che probabilmente arriverà presto se si parla di Girls).
Una soddisfazione rara nasce nell’ammirare la semplicità narrativa di una grammatica filmica ritrovata, dopo la perdizione ancora in atto dovuta al videoclip-style tanto in voga attualmente tra i sedicenti videomaker e che trova pace momentanea nei tradizionali campi-controcampi girati in nome della verità, senza artificiosi virtuosismi, i cui personaggi in carne ed ossa hanno storie vere da raccontare.
La parola d’ordine è parlare di ciò che si conosce, ammesso e non concesso che sia effettivamente interessante, come lo è, difatti, la vita comune dalle sfumature amare della Duhnam, che potrebbe fare di questa regola, un mantra per sé, artistico e sensuale.

Recensione già pubblicata su http://inchiostro.unipv.it/?p=9873

MOONRISE KINGDOM


Hitchcock diceva che al mondo sono solo cinque o sei le storie che registi ed artisti possono raccontare attraverso le loro opere. 
Una di queste, senza dubbio alcuno, è quella che parla d’amore, ché, suonerà anche retorico ma, si sa, è tutto quello che conta veramente. O almeno la pensano così i due piccoli protagonisti rivoluzionari di Moonrise Kingdom, la favola romantica scritta a quattro mani da Wes Anderson col figlio e fratello d’arte d’America Roman Coppola, che ha aperto l’ultimo Cannes e si avvia dritta verso l’Oscar tra i colori sgargianti di un’ambientazione pop anni sessanta virata al giallo limone-canarino ed arredamenti d’epoca da collezione. Sembra essere affezionato, Wes Anderson, agli anni della controcultura per eccellenza, affascinanti ed accoglienti, che ha ritratto con originale maestria scenografica anche nei capolavori indimenticati de “I Tenenbaum” e “Il treno per Darjeeling”  anch’essi fucine di personaggi bizzarri dalle battute irriverenti e cinicamente divertenti.
Oggi, il regista texano ci regala le suggestioni di una storia d’amore tenera ma allo stesso tempo precocemente matura, quella di due dodicenni che decidono di scappare insieme e fuggire dalla solitudine di un mondo in cui c’è spazio solo per la triste mediocrità di chi si attiene alle regole o  è annoiato persino da se stesso.
Dunque si parte: gatto in tasca, calze al ginocchio e scarpe della domenica, inizia il viaggio dei fidanzatini verso nuovi lidi sereni tra una tavola per due romanticamente apparecchiata sugli scogli ed un giradischi che li fa ballare. E’ così, sotto le note di canzoni francesi che parlano di loro, che Sam e Suzy scoprono baci umidi di nuova emozione e si leggono a vicenda, prima di addormentarsi abbracciati, favole magiche e misteriose, come artisti d’epoca innamorati che si dedicano canzoni con parole d’amore: critica feroce alla vuotaggine moderna dell’umanità, questa, così infinitamente libera da essersi ormai ridotta, come ha detto qualcuno, ad uno sterile mutismo davanti ad un microfono acceso.
E’ attraverso un binocolo sempre a portata di mano che Suzy scopre il mondo intorno a sé decidendo di non gradirlo affatto, e lo si intuisce già dalle prime suggestive sequenze del film in cui carrellate che lasciano senza fiato mostrano la casa di bambola in cui vive, adornata e ricca di particolari studiati con perizia ed aderenti ad una visione estetica tipica dell’occhio di Anderson, la cui poetica si potrebbe definire “del dettaglio perfetto”.
Ogni quadro è composto secondo un equilibrio speciale che dona alla vista un’armonia difficile da ritrovare altrove, accompagnata, per di più, da una colonna sonora che, come sempre, vanta una ricerca attenta e, è il caso di dirlo, più felice che mai.
Anche oggi si è finito per parlare d’amore: sarà anche vero che le trame da raccontare sono solo cinque o sei in tutto ma fino ad ora, con seri dubbi al riguardo, rimango stupita di cotanto amore fluttuante nelle sale, anche se, con tutta probabilità, questa tendenza sarà da imputare a nient’altro che solo un periodo cinematografico felicemente fortunato.

Recensione già pubblicata su http://inchiostro.unipv.it/?p=9676

RUBY SPARKS


Il mio primo blueberryfilm arriva dal Sundance Film Festival ed è un vero gioiellino. 


È tra un french toast ed un caffè americano che si consumano le colazioni di un giovane scrittore un po’ imbranato alle prese con la classica “ispirazione dell’artista”, che si sa, talvolta abbandona impietosa gli animi più inquieti per poi tornare d’improvviso, rivestita della sua tipica bellezza, ad ammantare solo il genio di colui che ne sa rapire la fugacità traducendola in immortale poesia.
Ai limiti della sociopatia ed illuminato dall’affezionato analista, come da tradizione pseudo-intellettuale, Calvin, comincia a scrivere di sé nonché della fantastica donna-angelo che abita i suoi sogni sensuali e, ammaliante, prova a svegliarlo dal tragico senso d’inadeguatezza maschile oggi tanto in voga, capace di provocare niente di più che frustrante torpore sentimentale.
E sembrerebbe salutare, infatti, custodire nei meandri di una fervida immaginazione, fantasie sessuali anche ardite, pronte all’uso per i sognatori più romantici, ma qual è il limite entro il quale le anime salve degli artisti possono continuare a considerarsi tali?
Lo sa Calvin perché è dalla sua macchina da scrivere d’antan che nasce Ruby Sparks, una ragazza che il Woody Allen di “Provaci ancora Sam” (a cui ultimamente il cinema mondiale strizza l’occhio non poco) definirebbe “eccezionalmente bella, una bellissima ragazza, un’insolita bellamente ragazza, ragazzamente bella…”, la quale, come per magia, dalla carta prende vita e si materializza portando scompiglio nella vita dell’autore.
Una favola contemporanea quella che porta il nome di tale madama, e pur rientrando fastidiosamente nell’etichetta ingrata della commedia romantica, dimostra di saper rivitalizzarsi grazie, soprattutto, alla regia dei coniugi Dayton-Faris, ancora insieme per la loro seconda fatica cinematografica dopo il capolavoro indipendente “Little Miss Sunshine”, pellicola incantata del Sundance Film Festival difficile da raggiungere con la leggerezza dei suoi colori, l’irriverenza e lo stile naif degli scenari insoliti.
Avendo spogliato ogni personaggio da qualsiasi stucchevolezza di genere, anche la scrittura del film rende divertente questo piccolo miracolo cinematografico, grazie alla mano esordiente di Zoe Kazan, nipote d’autore, che si cuce piacevolmente il personaggio addosso come un vestito d’altri tempi, poiché, se non si fosse capito, oltre ad essere la sceneggiatrice del film, incarna proprio la Ruby in questione, per di più compagna reale dell’attore Paul Dano-Calvin.
Una storia intricata, dunque, in bilico tra fantasia e realtà, che anche se si perde in stereotipi già visti, acquisisce un sapore ed una dolcezza tali da  non affaticare neanche i palati più esigenti, coccolandoli senza invadenza.
Ci sono amori a cui non è necessario dare un senso e che, come tutte le cose belle, rivendicano ingenuamente la propria imperfezione perché, se è vero che è il difetto a rendere interessanti, questo film, dalle trovate comunque divertenti, è il perfetto esempio di un cinema che si libera dalle catene indulgenti dei propri peccati. 

Recensione già pubblicata su http://inchiostro.unipv.it/?p=9509

myblueberrymovie #2

Il blueberrymovie è un film indipendente e quando non lo è, gli assomiglia. 
Ha una storia delicatamente semplice, la cui normalità si trasforma in poesia grazie alla regia consapevole di chi usa la macchina da presa per raccontare veramente una storia con il cinema non per il cinema.


myblueberrymovie #1

I miei film al mirtillo rappresentano tutte le perle indipendenti che vedo e di cui non so parlare. Uno dei film che evoca le atmosfere dei miei blueberryfilm è quello che, per mano di Wong Kar-wai, regala poeticamente il suo nome alla mia nuova avventura: My Blueberry Nights

myblueberrymovie #0

Un film al mirtillo è quel film che a voce non sai spiegare.