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martedì 25 giugno 2013

Lost in Traslation

Un film di Sofia Coppola con Scarlett Johansson, Bill Murray. 2003, USA

Non ho potuto fare a meno di dedicare un post a questo gioiellino romantico imperdibile.
La lista di premi vinti, non a caso, è quasi infinita e, tra tutti, in linea con il blog, cito quelli vinti agli Independent Spirit Awards: miglior film, regia, sceneggiatura e attore protagonista.

Una giovane sposa in cerca d'ispirazione, un po' acerba, un po' lolita, si aggira in un lussuoso hotel di Tokyo, dove è approdata per seguire il marito e i suoi impegni di fotografo eccentrico mentre lo stesso fa un affascinante attore di mezza età, disilluso e malinconico, in città per girare uno spot pubblicitario. Complice l'insonnia entrano l'uno nella vuota esistenza dell'altra.

Un'ottima opera seconda con la quale Sofia Coppola inaugura il suo interesse a quei due filoni particolari che si ritroveranno anche nei film successivi: il rapporto con il padre e la presenza del non-luogo per eccellenza, l'hotel, a cui è dedicato praticamente quasi tutta l'opera: hotel che per la Coppola significa praticamente sempre precarietà, ricerca di radici, di intimità e stabilità.

Affascinante il tema così etereo ma prepotente sulla scena, sia emotivamente che visivamente, dell'affetto amorevole e sensuale che può nascere tra due persone molto distanti d'età e molto vicine d'animo: un'emozione da proteggere e sfiorare con attenzione.
Un connubio romantico, Scarlett Johansson-Bill Murray fluttuanti tra i proprio desideri, in cui lei rappresenta al meglio un personaggio ingenuo, libero e senza malizia mentre lui, con una splendida interpretazione, racconta un uomo romantico che non esiste più, quello che fa sorridere con la sua malnconia.

Un film che stimola da diverse direzioni perché, la trama è semplice ma allo stesso tempo ricca di spunti secondari, di riempimento, molto piacevoli e mai inutili, sempre capaci di portare avanti la narrazione, mentre la recitazione è intensa, piena di sottotesto, molto fitta anche nei silenzi, così completi di parole e sentimenti sempre intuiti come una poesia delicata che deliziosamente suona leggiadra. La colonna sonora è, come spesso accade nei film della Coppola, sempre disarmante: con una consapevolezza musicale rara, la regista accosta e mixa contenuti e generi differenti e ultra-contemporanei perfetti sotto le immagini pop-romantiche quasi descritte da quelle note. 

Buona protagonista, non ingombrante ma interessante nella sua freddezza cromatica ed umana, è Tokyo, con i suoi colori, la gente indifferente e una vista spettacolare: una città non solo ammirata dall'immensa vetrata ai piani alti dell'hotel, ma vissuta dal basso, per le strade, nei locali underground.


Uno dei finali più belli della storia del cinema.




mercoledì 6 marzo 2013

The sessions


Un film di Ben Lewin con John Hawkes, Helen Hunt. USA, 2012


Presentato in anteprima al Sundance 2012 dove ha ricevuto il Premio del Pubblico ed il Gran Premio della Giuria, ha appena visto trionfare i suoi protagonisti anche agli Independent Spirit Awards 2013.
In principio fu il titolo “The surrogate” poi tramutato in un più morbido “The Sessions”, come le sessioni d'amore possibili, al massimo sette, tra una terapista sessuale ed un giornalista disabile bisognoso d'avvicinarsi al sesso.
Mark (John Hawkes), infatti, ha trentotto anni, uno spirito intellettualmente nonché artisticamente vivace, un corpo quasi interamente paralizzato dalla poliomielite intrappolato in un polmone d'acciaio e legittime necessità sessuali dalle quali, ad un certo punto della sua vita, comincia ad essere profondamente turbato.
“Amava ed era amato” si dice di lui, tragico eroe alla ricerca di una libertà spirituale, uomo puro dalla sensibilità e dall'umorismo dolenti, dalla voce sforzata, fragile ed amorevolmente infantile.
L'ingenuità di un poeta libero, con un grande cuore premuroso e la carezza nello sguardo pronta a sfiorare i visi delle donne di cui sinceramente si innamora e alle quali dedica pensieri struggenti.
Spaventato come un bambino di fronte all'ignoto, teneramente docile ed inerme tra le mani della terapista Cheryl (Helen Hunt) a cui può solo rivolgere sguardi tanto ingenui quanto ammirati, inizia un percorso di coscienza di sé e del proprio corpo che lo renderà un uomo completo non senza i grandi turbamenti, i dubbi e le difficoltà del ritrovarsi a gestire, ormai adulto, emozioni tanto nuove quanto contrastanti.
Perché di maturità si tratta, quando lui stesso si accorge che la paura che prova nei confronti del sesso e di se stesso, è la sua paura di crescere, di lasciar svanire, in qualche modo, un po' di quel suo sguardo innocente e positivo, allegro, nei confronti del mondo che tanto lo rende speciale; una paura che non prescinde neanche dalla sfera religiosa e dalla salda fede di Mark, che sconvolto dal sesso e bisognoso d'approvazione divina, troverà il sostegno sperato in Padre Brendan (splendido William H. Macy), confidente silenzioso e buon ascoltatore pronto a festeggiare con lui l'amore ed i progressi sessuali.
E che sia un tipico fenomeno di tranfert o vero e doloroso sentimento, colpisce la grande finezza, dignità e solenne razionalità con cui entrambi i protagonisti lo lasciano svanire, forse avendone timore, fino a che anche per Mark non sarà tempo di qualcosa di speciale: finalmente poesie ricambiate, non più solo corteggiate, tristemente intrise di colonia o vane speranze.
Sereno ma triste epilogo per un uomo di cui innamorarsi senza tentennamento e per un film doloroso ma dalla leggerezza sublime.
Un po' "L'uomo che amava le donne" e "Casanova" per il romanticismo, un po' "Lo scafandro e la farfalla" per la gravità.
John Hawkes, irriconoscibile e commovente, con la sua struggente performance, ha ridato vita, come nessun altro sarebbe riuscito a fare (fatta eccezione probabilmente per Sean Penn che sarebbe stato in egual modo perfetto), alla storia vera di Mark O'Brian, giornalista e poeta paralizzato dalla poliomielite su cui, già nel 1996, la regista californiana Jessica Lingman Yu aveva girato un documentario.
Un soggetto molto amato, dunque, dal cinema che in entrambi i casi ha saputo approfondire al meglio il mistero, lo straniamento, l'umorismo e l'amarezza di un tema tanto importante quanto sottovalutato quale la sessualità nella disabilità, unita per di più ad un'esigenza religiosa.
Un tema complesso affrontato con estrema finezza ed impressionante realismo dal bravo regista australiano-americano Ben Lewin, tanto da rendere una storia drammatica a tratti divertente, il cui protagonista stesso si fa eroe leggero che senza piangersi addosso o prendersi sul serio, riesce a farsi amare, grazie alla sua struggente onestà, da chi lo circonda, mai per pietà quanto per il grande apporto umano che il suo cuore e la sua mente regalano alle anime che incontra e che, in qualche modo, non sanno più uscire dalla sua vita.