Un
film di Sofia Coppola con Stephen Dorff, Elle Fanning. USA, 2010.
E'
nato come titolo provvisorio ma è diventato ben presto ufficiale
grazie alla sua leggiadra carica evocativa, ispiratrice d'atmosfere
vacue ed irrisolte, vere protagoniste del film.
E'
del 2010 e la lacuna sul blog andava colmata.
Quarta
opera di Sofia Coppola, Leone d'oro a Venezia 67°, è una delicata
storia d'affetti: parafrasando la regista stessa, un poema sinfonico
contemporaneo ed autobiografico.
Prodotto
dal fratello Roman e dal padre Francis, quasi come fosse
indipendente, il film è compreso nella breve ma fortunata carriera
di un'artista ancora considerabile emergente, la quale abbandona in
questo caso amore, suicidi o macarons, per raccontare la
vuota vita di un attore in crisi esistenziale.
Lui
è Johnny Marco (Stephen Dorff) che presso l'alloggio feticcio dei
divi di Hollywood, lo Chateau Marmont Hotel, consuma giornate dedite
ad alcol, feste e audaci ballerine , ed in preda alla noia nonché ad
uno stile di vita dissoluto, rimette in discussione la sua vita
trascorrendo pochi giorni con la figlia undicenne Cleo (Elle
Fanning). Dolce e sensibile lolita sorridente, asseconda il mondo
immaginario del padre nel quale, affannando, cerca di ritrovare un
genitore troppo assente ed inetto per il quale non può, però, che
provare amore e tenerezza.
Un
percorso affettuoso e reciprocamente rivolto alla scoperta l'uno
dell'altra, li vedrà uniti e complici nel costruire un
personalissimo codice, quasi fraterno, di comunicazione giocosa che,
come uno scherzo in musica, stupisce e addolcisce lo sguardo dello
spettatore.
Un
uomo come sempre complesso ed irrisolto quello descritto dalla
regista nell'intera sua filmografia, addirittura assente per certi
versi, basti pensare a Lost in Traslation, e se in quel film
il personaggio interpretato da Scarlett Johansson poteva sembrare una
proiezione adolescenziale della regista all'interno di una storia
d'amore platonica poetica e struggente, in Somewhere, tramite
Cleo, la Coppola ci racconta la se stessa bambina sofferente nei
panni di un'eterea ed innocente fanciulla in cerca di una figura
paterna da amare.
Si
parla di Coppola padre dunque, protagonista assente del film nonché
amabile responsabile della squisita e romantica tenuità delle
atmosfere (sono sue le originali e vintage ottiche Zeiss anni
ottanta utilizzate per donare alle immagini una grana meno HD e più
sfumata nei colori del pastello).
L'italianità
stridente e grottesca di una parte del film (con gli attori più
trash di cui disponiamo eccetto Maurizio Nichetti) restituisce una
altrettanto grottesca immagine del nostro paese, affetto da uno star
system caciarone, finto e paillettato che ci renderebbe
tristemente pittoreschi di fronte a qualsiasi occhio straniero.
Al
tema dell'anti-eroe e della superficialità di un mondo
patinato poco reale, si aggiungono quelli del viaggio, della mancanza
di radici e delle relazioni, tutti elementi di un unico topos e luogo
dell'anima prettamente Coppoliano, l'albergo: nido intimo di amanti o
familiari alla ricerca delle proprie origini, ma allo stesso tempo
inferno abitato dall'altro, dallo sconosciuto, da chi inevitabilmente
potrebbe rompere la sfera privata del film e provocarne un repentino
stravolgimento.
L'inizio
straniante alla P.T. Anderson ci conduce subito all'interno di un
film molto personale e raffinato, rifinito da una colonna sonora
contemporanea degna di nota come per le precedenti opere.
Lo
stile è minimale e la macchina da presa indugia sulle
inquadrature, spesso insistentemente, rendendo il ritmo
volutamente lento talvolta, adatto a stimolare la riflessione,
l'osservazione approfondita del particolare, anche glamour,
sempre presente nell'estetica della Coppola o dei paesaggi e delle
strade desolate di Los Angeles.
Un
ritorno alla semplicità produttiva dopo i fasti dell'opera in
costume Marie Antoinette certamente più complessivamente
elaborata.
Omaggio
a Fellini quasi sul finale (e l'impostazione della scena ricorderebbe
anche l'epilogo di Lost in Traslation) con il padre di Cleo
che, sotto il rumore dell'elicottero, le chiede scusa mentre lei si
allontana ed ormai distante non riesce a sentirlo. Inoltre, a fronte
di una struttura filmica perfettamente circolare, un ulteriore
omaggio al cinema, in questo caso francese, conclude realmente
l'opera, con quella che rappresenta una delle scene truffauttiane per
eccellenza, al profumo di liberazione, possibilmente in riva al mare,
ma senza il fermo immagine.